L’uomo che sprofonda (il re)

Sono l’uomo che sprofonda che non trova le parole e che sempre si vergogna.

Sono io l’uomo trafitto dal male nascosto, dalla bellezza, dall’ordine, dal parlare fittizio.

La tua lacrima mi solca, la tua forza poi mi innalza, nel tuo passo io cammino.

Sono l’uomo che si inchina, che perdona, che sorride e che ti aspetta.

Sono l’uomo che sprofonda nell’abisso di memoria, mentre torno col silenzio alla fontana.

Sono ciò che ascolto, vedo quel che c’è, e li disegno io i campi di Monet.

Sono l’uomo che sprofonda quando cade troppa pioggia, ne conosco i danni e voglio solo dissetarmi.

Sono l’uomo che sprofonda e non riesco ad abbracciarti, quando un nido ho ritrovato, a te l’ho consegnato,

il mio fare è un ricopiare, nel trionfo del colore, ogni gesto è un tremore,

il non-senso l’ho incontrato, io “indegno, peccatore e vile”

dentro il peso del dolore, dell’ingiusto e nel dover guarire.

Sono l’uomo che sprofonda perché sono in difetto, mancante, mendicante, imperfetto e permeabile.

Non capisco chi non t’ama, non lo voglio come amico.

Sono l’uomo del naïf ma poi studio l’architrave dove metterti al sicuro.

Mi commuove chi commuove, mi appassiona la compassione, mi diverte l’allegria.

Ma sono l’uomo che sprofonda se mi accorgo che mi guardi.

Perché mi pare di non meritare, di non essere, mi pare di non arrivare.

Il mai, il non abbastanza, così come l’altrove, o “Più in là“, l’ancora e il per sempre: mi fanno sprofondare.

Invece e da sempre, mi guardi come fossi un Re

io che nacqui nudo e nudo ho vissuto.

Sono l’uomo che sprofonda.

Impunemente amato, sono, proprio qui ancora nudo, (in) te, che mai, mai, mai,

mi hai abbandonato.

 

 

 

 

 

 

Claude Monet, Campo di papaveri, Giverny, 1890-91

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