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Mi piace osservare la gente, l’ho sempre fatto. Fin da piccola osservavo al mercato, lungo le strade, alla stazione, nei corridoi della scuola. Guardavo, ascoltavo, spiavo, sentivo quelle presenze come un immenso materiale umano da cui rubare una soluzione, una risposta, una idea buona. Sempre a occhi bassi, sempre trafelata e un passo indietro, ma non mi sfuggiva una parola, un gesto, un’azione. Milioni e milioni di immagini entravano in me e ne facevo storie, ipotizzavo provenienze e destini, dolori, sacrifici nascosti e impeti. Uno dei luoghi preferiti è senz’altro sempre stata la stazione e ancor di più l’aeroporto, dove gli arrivi e le partenze erano dettagliati da abbracci formali, drammatici o passionali, strette al cuore, abitudini; Sconosciuti tutti accomunati da questo senso del viaggio che sta per iniziare o che è appena, apparentemente volto al termine.
Uno dei tempi preferiti per osservare, è sempre stato la notte. Perché senza sole in testa, la gente è più stanca di usare le proprie immunità, le forme consuete, le facce imprestate dai ruoli. Così di notte, frequentando anche posti decisamente poco raccomandabili, ho conosciuto un po’ di miseria, un po’ di arroganza, un po’ di sfrontatezza. Ho conosciuto il fascino per il pericolo, per il rischio irragionevole, per la provocazione. Di notte si sfida la vita, la si tratta come qualcosa che finirà presto ed è meglio non perdere tempo. Di notte si cerca l’amore e si trova la solitudine, si sente freddo, fame, si vorrebbe un riparo ma conviene resistere. Di notte ci si illude che qualcosa stia accadendo al di là della vita, al di sopra del nostro conoscere e al di dentro del nostro più intimo desiderio. Poi verso le quattro, quando le gambe sono stanche, le vene sono ubriache e gli occhi vogliono chiudersi, verso quell’ora si può andare oltre, superare il limite e così la notte buia e fredda della mia città medievale, diventava l’attesa di un incanto, l’attesa di quella luce che piano piano entrava nei vicoli, illuminava il ghiaccio e si faceva silenzio. Quelle ore prima dell’alba sono piene di relitti, di coloro che hanno ancora da camminare, di gente che si è persa, che non si arrende a un ristoro. E se i locali chiudono le strade si riempiono di nuovo di questi avanzi, di quelli che non vogliono ancora cedere, non tornano a casa.
Così ho passato molte ore prima dell’alba a girare per le mie strade, a osservare non più le moltitudini illuminate ma i singoli in penombra. Di notte ognuno ha con sé la sua malinconia, non più nascosta da quel che si deve fare, ma vissuta in una piccola rivolta contro la consuetudine.
La notte la gente è più libera, non perché non ha da fare il proprio dovere, ma perché si sente meno osservata.
Ma andando indietro nel tempo, mi ricordo che la storia era cominciata nel giardino dell’asilo, osservando le formiche rosse. Quelle che proliferavano nei muretti arrostiti d’estate e che non so come potessero riuscirci, ma lavoravano, correvano, si affannavano a temperature insopportabili. Questi esseri minuscoli e isterici, compivano percorsi arditissimi, sopportavano carichi enormi, si aiutavano a vicenda, e tornavano a casa di corsa per non so quale richiamo o dovere, ma parevano perfettamente felici. Ma anche loro non si sentivano osservate da me, come se io proprio non esistessi, anche se mi mettevo lì, accucciata a osservarle, prendendo pezzetti di rami e intralciavo il loro percorso. Nessun effetto collaterale: cambio di direzione e poi la formica riprendeva certa la sua strada per andare dove doveva andare senza che la mia presenza alterasse i suoi e i loro compiti.
Così, pur avendone già avuto dubbi, nella primissima infanzia, iniziai a sperimentare che il mio esserci non era così percepibile dagli altri, non era così interessante o decisivo. Tutto quel mondo andava avanti senza di me, incurante di me. Io non c’ero. E mi inventai un amico invisibile alto come una mela che portavo sempre con me. Senza nome, ma decisamente, coraggioso. Il suo non esistere per il mondo era la mia forza. Ogni anno lo ritrovavo al mare e non capivo come avesse potuto percorrere novecento chilometri per passare l’estate con me. Se io iniziavo a camminare lui si sedeva sulla mia spalla, se io dormivo lui dormiva, se ero in barca, buttando giù la mano sulla superficie del mare, lui faceva sci nautico sulle mie dita, sfidando quelle onde immense. Nessuno ha mai saputo della sua esistenza, credo abbia vissuto con me per qualche anno ma davvero, non ricordo che fine abbia fatto. È semplicemente tornato da dove veniva, nel nulla.
Così di notte, quella scoperta infantile del mio non esserci era diventata una certezza che mi permetteva di infilarmi a osservare senza paura quello che al buio della città e delle anime, non dovrebbe essere visto.
Questa percezione di non esistere mi faceva incuriosire dell’esistenza altrui: tutti c’erano tranne io. Così, ero libera di guardare senza essere vista. Quando sono venuta a vivere nel bosco e ho iniziato ad avere incontri quotidiani con erbivori come i caprioli, ho capito che invece la loro esistenza è opposta. Essendo dei predati, mentre si incamminano o mangiano, girano sempre il muso per capire se qualcuno li sta osservando. Sono sempre sul chi va là e credo sia una vita molto faticosa. Eppure lo fanno con una eleganza e con una calma che pare siano arresi a questa necessità. In effetti anche io, quando camminavo per la mia città, tenendo gli occhi bassi, ero convinta di avere più campo visivo e di poter usare di più l’udito, concentrandomi su ogni suono, e mi voltavo ad ogni suono come un predato.
Nella casa grande, immensa, in cui abitavo da piccola, mi esercitavo a non vedere, andando in giro per i corridoi e le sale, sempre al buio. Imparai così a conoscere ogni minimo angolo, ogni oggetto e imparai ad ascoltare a seconda delle ore, ogni differente suono che mi aiutasse a capire dove fossi. Nessuno mi vedeva e io non vedevo niente. Così sarei sopravvissuta da grande a una cecità o a un buio perenne o imposto. Imparai piano piano e non senza botte in fronte a camminare certa anche senza luce. E tutt’ora sono rimasta un po’ pipistrello, preferendo la luce della candela a quella del lampadario. Certo è che di notte, anche ora, se mi alzo, me ne vado in bagno al buio e torno a letto al buio. O al mio ritorno a casa, la prima cosa che faccio non è mai accendere la luce.
Mi guardo intorno come un capriolo, ma non ho mai il sospetto che ci sia un predatore. Ho la calma e il silenzio dalla mia. E questo mi basta.
Così ho passato tanti anni a non farmi vedere. O a credere che fosse così.
Ed è per questo, che dieci persone per strada mi sono sembrate sempre mille. Una proliferazione continua di esseri umani mi ha circondata per anni, come se vivessi in quelle metropoli asfissianti con densità di popolazione che va oltre ogni limite di sopportazione.
Ma poiché tutto si svolgeva nell’anonimato, io ero lì senza esserci e senza aspettarmi agguati.
Con il tempo, la mia necessità di osservare, prese anche l’abitudine di prendere appunti. Come per non dimenticare quel milionesimo particolare scoperto oggi e non ieri e che domani si sarebbe perso, sopraffatto da altri milioni e milioni di particolari sorpresi. E con me ci sono sempre un taccuino e una penna.
Quando invece di notte vado in giro per il bosco, la percezione è opposta. 
Quando cammini e senti lo scricchiolio del legno e delle foglie, capisci che stai mettendo i piedi a terra, perché senza quel suono ti sembrerebbe di librare in un non-luogo. Quando senti l’odore del muschio fradicio, quando avverti la pendenza e le pietre che intralciano il non-sentiero, inizi a puntare l’attenzione sul tuo corpo dentro quel non-spazio. Passo dopo passo, il gelo inizia a penetrare le narici e scende giù e nelle nuvole che emetti, c’è il perché di quella insensatezza.
Ma nel bosco, sei continuamente osservato e non lo sai. Tutti ti osservano in silenzio. Gli alberi, i rovi, le stelle, perfino i sassi. Quando inizi a percepire questo, inizi ad ascoltarlo e ti salgono su mille suoni di uccelli notturni sconosciuti. Alzi gli occhi per trovarli tra i rami ma non li vedi. Sono lì, ti guardano, ma non li vedi. E poi senti i passi di caprioli, il fruscio dei gatti selvatici o delle lepri sotto i rovi, e i bofonchi dei cinghiali. Tutti sanno che tu sei lì, ma nessuno ti guarda negli occhi o ha il problema di spiarti, eppure ti osservano. Sanno esattamente, dove sei. In quella dimensione, in quel punto di non-vista, tu sei al centro del loro sistema, come un estraneo ma, più vai avanti, più i piedi calpestano il terreno, più entri in quella atmosfera e diventi parte di essa. Non sei più un “io”, ma sei parte di tutto quello che sinteticamente viene chiamato Natura o Creato.
Non ho mai avuto nel bosco, il problema di essere vista. Eppure lì, io sono il soggetto più inesperto, più debole, più pauroso e più fragile. Non ho dominio. Ho solo la volontà di non arretrare, di accogliere quelle fitte di gelo, di fare altri passi e vedere cosa c’è dietro. La piccola luce che mi porto, illumina un paio di passi al massimo, così se percepisco dei rumori, improvvisamente la punto su un ramo o verso un cespuglio. Ma in genere non vedo niente. Senti una presenza che non vedi, sai di essere presente per tutti e sei osservato. Insomma è molto simile alla nudità. Ci si trova scoperti, soli. Il respiro si abbassa per non far troppo rumore, i passi rallentano, le pupille si dilatano, il ghiaccio arriva alle ossa. Nel bosco, tutti vedono quello che stai facendo. Tutti sentono il tuo battito e sanno che hai paura. E tu, ci sei.
Puoi imparare, col tempo, a riconoscere degli angoli, puoi prepararti un sentiero, puoi sapere quanto dista ancora la strada di ritorno se tutto va bene, ma nel bosco non puoi camminare a occhi chiusi. Devi tenerli aperti, sgranarli, lasciare che le pupille diventino come quelle dei gufi, devi per forza guardare tutto, a testa alta, a testa bassa, dietro, di là… In quell’andare i tuoi sensi cambiano, si innalzano perché non hanno mai sentito, non hanno mai odorato, non hanno mai strisciato e non conoscono. Tanto esplorano, tanto può prenderti il panico, il dio Pan in carne e zoccoli, può venire a trovarti con la sua zampogna.
Il panico causato dalla folla è soffocante, ti stritola. Il panico che ti viene nel bosco è liberante, si fa sentire all’altezza delle querce, ti libra di suoni e odori, ti fa percepire il tuo corpo come nulla, per cui non hai niente da proteggere, avanzi, continui.
Nella folla ti blocchi e scappi. Nel bosco vai, avanti, verso la luce intravista. Perché ci sono sempre la luna o una sola stella a darti una mano.
Non posso dire quante volte vado in piena notte a farmi un giro nel bosco, perché i miei amici si preoccuperebbero. A volte, se ho voglia di essere distratta mi porto un cane o due. Ma poi l’attenzione va sulla loro pista olfattiva, non sulla mia curiosità. Ma i cani, sono al loro posto, io invece sono l’ospite e così cerco di essere cordiale e di accontentare tutti. Quando ci sono i cani, gli osservatori se ne vanno, se sono troppo vicini o troppo in basso. Non è che mi senta più tranquilla coi cani, anzi, mi distraggo su di loro ma certamente non posso giungere a quella nudità estrema che spesso mi conquista. Come avere una guida, un motivo per tornare indietro, qualcuno a cui stare attento.
Nel bosco non incontri facce malinconiche, hai a che fare solo con la tua. Tutte le ansie e i pesi che porti dal quotidiano, le appoggi a qualche ramo, o le fai bagnare dal ruscello e diventano più lievi o più distanti. Nessuno ha peso.
Così osservi senza giungere a conclusioni, senza poter dare una definizione, perché tutto ti racconta una storia che non hai mai conosciuto.
Ogni volta che faccio venire l’uomo che mi consegna il gas, si consuma un piccolo rito. Dopo aver scaricato la bombola piena, accatastato la vuota nel suo furgoncino, pago e mi sento dire:
«Non hai paura a vivere qui»?
«No, perché dovrei»?
«Ma come, tutta sola in un bosco»…
«Mai stata così in compagnia».
Nelle foto: Perugia, il bosco dove vivo ora in Toscana.
