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Volevo diventare un inviato di guerra. Di quelli polverosi, che fissano un cameramen tremolante, con la fretta di raccontare sotto le bombe, alla Toni Capuozzo. Credevo fossero gli unici costretti a dire la verità. Quantomeno per orrore e paura. Quelli che vanno con un’idea ben precisa del bene e del male e tornano confusi, sporchi di morte e di dietrologie. Perché il problema della verità l’ho sempre avuto, come quello della bellezza. Verità e bellezza, due anime che ho sempre cercato in ogni cosa, fino a trovarle insieme negli studi di Estetica.
Scoprii un giorno che non può esistere bellezza senza verità e che le due non si possono raccontare se non per esperienza fatta.
Così mi ritrovo qui a parlare di cani, di ciuchi, caproni e di una vita che invece di Baghdad o di muffose stanze universitarie mi ha portato in un bosco, alle porte del Mugello, tanto vicino alla natura, tanto lontano dalla città.
Insieme a verità e bellezza ho cercato poi anche la solitudine. Non vi racconterò troppo di me, di quegli accadimenti che rendono la vita, propria, per pudore e per vergogna. Non vi racconterò molto neanche le mie capitolazioni, i miei pensieri, per non dare troppo alimento all’ego, per non sciupare la vostra amicizia, per non annoiare il mondo con altre teorie. Vi racconterò di una vita normale, poco riuscita coi criteri del mondo, complicatissima come quelle consapevoli nell’era ingannevole del “posso fare tutto di me”, semplificata, incastonata in una sorta di ritorno all’essenziale. Vi racconterò di come la natura cambia un’esistenza nelle molteplici forme con cui si presenta, si impone, spadroneggia, ti riporta all’alba della tua esistenza a volte e ti fa morire.
Quale ne sia la necessità non lo so ancora, di questo scrivere… ma di necessità si tratta. Non desiderio, necessità appunto. Bisogno. A volte semplicemente, esigenza.
Perché se un Goethe o un Leopardi mi hanno fatto struggere davanti a una tempesta o a una misera siepe invadente, Kafka e Potock mi hanno raccontato la natura umana, quella fatta di infinite sfumature e contraddizioni. Di trapassi, mutazioni e peccati. Di limiti e arie infinite, di sublime e di mercificazioni. E loro che per me sono amici carissimi li incontro, li medito, li rivivo mentre osservo il cielo stellato dal mio pezzo di bosco o mentre tiro su le cacche dei miei animali, perché subito vedo la miseria, la non poesia, l’imperfezione, la fatica di ogni essere vivente. Gli animali, infatti non mi appagano, mi pagano. Mi danno il nutrimento dell’ordine che cerco, dell’armonia a cui tendo in un caos a volte insopportabile in cui la mia vita è iniziata e ha proseguito impavida e zoppa, tra le pieghe del non compreso.
Perciò se l’odore è fastidioso, soprattutto di prima mattina, soprattutto per il numero di quadrupedi che popola il mio spazio, l’accudimento è sacro, la pulizia è necessaria. Di che sto parlando? Dell’inizio della mia giornata: il suo primo cominciamento è il caffè e poi la raccolta delle scorie, le defecazioni, le cacche insomma, in quasi un ettaro di campo. E così mentre il cor si irradia di grandi ideali per il dì che ha da venire, le mani si impegnano in azioni deprecabili, fastidiose e decisamente noiose. Questo dovere, è ciò che rende stabile il mio caos, poiché gli animali mangiano e defecano tutti i giorni, anche a Natale. Questo ordine mi costringe a essere ordinata. Io che mai lo fui e non lo sono. E mentre cammino all’alba a compiere azioni immonde senza peccare, mi chiedo sempre cosa sia la vita poi, questo ambire all’assoluto nel mentre con una pala pulisci una stalla o levi via una zecca. Questo imperfetto, questo assurdo, questa schizofrenia tra l’alto e il basso, tra il cielo e la terra, tra l’amore sconfinato e la misura della spazzatura è quanto di più abituale vive in ognuno di noi. Ma scoprirlo e soprattutto sopportarlo è stata per me l’inizio di un nuovo inizio.
Avrete capito che non trattasi di etologia, né di filosofia, né di cinognostica, semplicemente dell’ordinaria costrizione voluta a cui gli animali ti sottopongono. Descritta, cotta e mangiata, come un fiume in piena o come una pillola di scoperta.
Uno scrittore (vero) mi ha detto un giorno: “tu qui perdi solo tempo, tutto tempo sottratto allo scrivere e alla letteratura”. Un’amica: “è troppo stancante, fisicamente ti spezzi”; un amico: “non puoi più viaggiare, non hai più tempo per te”. O ancora, altri: “sei matta”, “come fai a star da sola qui”, “avresti dovuto fare altro” e via dicendo. Quando, raramente a qualcuno viene ancora in mente la più alta delle posizioni umane che è il domandare (invece che sentenziare) ecco che arriva, con una frequenza quasi settimanale, l’interrogativo: “ma non hai paura a star qui da sola?”
No, non ho paura del bosco. Spesso nelle mie passeggiate notturne mi si rompe il fiato sentendo gli scricchiolii e i passi del cinghiale, o le mille voci degli uccelli che non conosco, o i tonfi sordi, i suoni oscuri, i passi miei incerti, ma non ho paura. Ho avuto paura della vita, con le sue morti quotidiane del cuore, con i tradimenti, gli stridori, i generici baluardi di potere, ma il bosco non mi fa paura. La solitudine non mi fa paura.
Una notte mi sono svegliata dal suono incessante di non so cosa ed era così imponente che credevo vi fosse una tempesta. Mi son quasi vergognata. Aprì la finestra e appena presi coscienza che si trattava semplicemente del vento mi uscì una specie di ghigno ironico. Non avevo riconosciuto il suono del vento, il suo ballo antico tra le fronde, che scuote che innerva, che filtra, che agita che incombe. Il vento, il primo amico che ci facciamo da bambini, magari se non si avesse avuto un’infanzia bucolica, scoperto solo aprendo il finestrino dell’auto e buttando fuori il capo, sentendo le gote che si riempiono di aria e i denti che si ghiacciano. Il vento, insieme all’acqua, alla terra, al fuoco. I primi uomini ce lo hanno insegnato e ognuno di noi, nell’eternità del vivere li ha scoperti un giorno con la meraviglia ancestrale della purezza. Facevo bene a vergognarmi, non si può vivere senza conoscere il vento. Senza riconoscere il suo alito.
E mi son venuti in mente ricordi d’infanzia, in certi posti, in certi momenti precisi, quando il vento mi era entrato nel costato e mi faceva ridere il vedere i miei riccioli lunghi intrecciarsi e ballare. Ci sono cose che non si possono dimenticare. Perché sono presenti e la dimenticanza è una colpa. Così non ho avuto paura neanche quando una mattina di novembre, prendendo il caffè prima dell’albeggio, ho visto volare via le tettoia delle casette di legno che avevamo appena finito di costruire con considerevole fatica. L’ho vista prendere il volo come un aquilone felice e mi lagnavo del lavoro andato appunto, al vento. Ma come fai a costruire un tetto se non conosci il vento?
