Carcasse

Quando persi l’intera cucciolata della mia Basset Hound, Amélie, ero disperata.

Avevo torturato veterinari da nord a sud Italia, avevo ipotizzato ogni soluzione possibile, nessuno riuscì a stabilire una diagnosi, neanche mesi dopo l’esame autoptico che feci fare su ogni cucciolo. Nel giro di dieci giorni morirono tutti, con spasmi angoscianti e senza alcun motivo, almeno per la scienza. Una piccola grande ecatombe.

La frustrazione che vivi non è solo per l’impotenza, l’inefficacia delle cure e il tempo che ti è nemico, è soprattutto per lo sguardo della tua cagna che realizza ciò che sta accadendo e si ribella. Non ci puoi far niente. Uno dopo l’altro se ne andarono tutti e io mi sentivo responsabile per quell’accoppiamento tanto studiato, voluto e programmato, ma la Natura è spietata.

Se vivi nel bosco ti capita spesso di trovare carcasse di animali e il giorno dopo sai che non ci saranno perché qualche uccello o qualche volpe se le portano via. Vedere cadaveri nel bosco è differente che vedere il cadavere del tuo cane perché gli animali selvatici ti hanno fatto la grazia di tenere le distanze e di morire in silenzio e in disparte.

Nella casa grande della mia infanzia avevo conosciuto le carcasse. Sotto c’era un magazzino enorme, con una grande porta a vetri che veniva aperta con gran fracasso, a qualunque ora del giorno e della notte. Arrivavano furgoni frigo e lì si scaricavano corpi pendenti di mucche aperte in due, che venivano fatte scivolare su un carrello, appese. Mi ricordo che barcollavano tanto e che il rumore del gancio a cui erano appese era stridolo. Così dal furgone entravano nel magazzino e finivano in enormi celle-frigo in attesa di andare nelle varie macellerie della zona.

Ogni volta che arrivano gli operai e iniziavano le operazioni, riuscivo a guardare per meno di mezzo minuto perché quei cadaveri che sarebbero finiti anche sul mio piatto erano appunto, semplicemente, la morte appesa.

Quando solo sfogliando un libro, vidi la prima volta un trittico di Francis Bacon fui colta da un malessere antico e solo dopo molto tempo capì che quei corpi trasfigurati pittoricamente io li avevo già visti e sofferti.

Non sono mai riuscita a diventare vegetariana, malgrado tutt’ora se vedo un corpo intero di coniglio o di agnello o chissà cos’altro, non riesco a mangiarlo o a cucinarlo. Perché l’interezza non è uguale al pezzo. L’interezza presuppone che ci sia una vita, o almeno ci sia stata. Il pezzo, è già una realtà manipolata, per un proprio fine, che sia nutrirsi o che sia viziarsi con inutili sprechi, solo per la goduria del palato.

Ho visto molti cadaveri in vita mia, di animali e di persone.

Niente a che vedere con quelli che incontri nel bosco. L’altro giorno un procione lungo la strada…

La peggiore scena però la vidi a El Cairo. Giravamo con una macchina della Diplomazia croata, con un amico professore di letteratura, egiziano. Con quella targa potevamo entrare anche in zone dove ai tempi facevano storie.

Guidare dentro El Cairo è una scommessa con la vita, non per la velocità, quanto per la quantità di auto e persone che ci sono per strada. Non esistono regole, passa chi c’è prima che sia pedone o carretto o una vecchia Simca degli anni Settanta. Mi ero resa conto che stavamo entrando in una zona povera e iniziavo da qualche giorno a capire, che non avevo mai visto prima cosa fosse, realmente, la povertà.

Gente accasciata per strada, silente, rassegnata, aspettando che la vita facesse il suo immobile corso. Bambini pieni di pulci e sporco, sguardi tagliati dai veli e non so cosa altro… Il professore mi disse di tirare via la mia macchina fotografica e di non farla vedere dal finestrino. La gente lì non vuole scatti e –  mi spiegava – che avrebbero potuto arrabbiarsi in modo pesante. Entrammo in una strada che costeggiava strane costruzioni simili al nostro tufo, fatte a forma di grotte, e c’erano molte persone sotto che semplicemente sedevano zitte. Chiesi che zona fosse quella e chi viveva in quelle grotte. Il mio amico mi disse che quello era il cimitero antico e che i poveri, lì, ci abitavano.

Sentì un brivido venirmi su dalla schiena sudata.

Poco più avanti c’era una specie di semaforo e ci fermammo per qualche istante. Buttato fuori lo sguardo dal finestrino, alla mia destra, a terra c’era un uomo seduto a gambe incrociate, con larghi pantaloni in stile arabo e una vecchia camicia di seta, sporca come la sua vita. Accanto a lui c’era il cadavere di un cane marrone, magrissimo, tipo braccoide:  era talmente irrigidito che le zampe erano sollevate da terra, i denti visibili, esposti dalle labbra, gli occhi aperti e spenti, parevano una mummia di Pompei scolpita dalla lava e fermata nell’istante proprio del decesso.

Guardai l’uomo accanto per vedere se anche lui fosse, non so, imbalsamato, e mi accorsi che era talmente fermo che sembrava non respirasse.

Poi l’auto ripartì e si lasciò inghiottire dalle decine di migliaia di altre auto che circolano fumanti per le vie di El Cairo.

Quella è l’immagine della morte che più mi ha ferita e disgustata. Quel cane stava lì da almeno giorni; quell’uomo forse, stava lì da tempo, anche lui. Era una fotografia immobile di qualcosa che non ha un destino, che non ha un nome, che non ha un senso.

Malgrado fosse Dicembre, malgrado i venticinque gradi all’ombra, mi ricordo che avevo sentito tanto freddo, quel giorno.

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