Epifania

Quel giorno sarebbe stato il giorno dell’epifania, il giorno della evidente manifestazione del suo essere. Dopo anni di indizi chiari, finalmente tutto si era ancora e di nuovo inverato. Avrebbe solo voluto sapere quanto ancora quel dolore sottile e incessante avrebbe abitato il suo ventre infecondo, quanto ancora le sue stupide gesta avrebbero avuto memoria e sussistenza. Perché cercando l’oblio e la dimenticanza si trovava invece a rivivere ogni istante come fosse di carne. Ogni bacio rubato come una ladra che non sa di chi sia quella casa da profanare, o chi vi abiti davvero. Ogni parola ascoltata, resa credibile dalla statura umana e dignitosa di chi la pronunciava, era stata da lei ascoltata come la sete appagata, dopo anni di arsura e di amarezza.

Sapeva che sarebbe stato indicibile quanto era successo, sarebbe rimasto tutto nel silenzio di un segreto mai confessato eppure le pareva di urlare, di sbattere quelle parole animate contro la collina che non le restituiva nemmeno un’eco.

Andò a dormire nel bosco, senza coperte né coperture, cercando uno spazio inabitato e nascosto, cercando la tana, per sentire l’odore di terra bagnata e magari accorgersi di essere ancora viva.

Col passare delle ore se tanto era impossibile abbandonarsi, mentre cresceva la paura per ogni rumore o suono emesso dalla natura, tanto le pareva di annullarsi in quello stato, cercando di allentare la morsa della verità. Perché mai si era ri-decisa ad accettare che la vita fosse vitale, amorosa, bella e lieve? Perché mai aveva osato aprire quel cancello e lasciar entrare lo straniero? Come ci fossero davvero acqua da far scorrere, musica da ascoltare, parole da scrivere ancora, stanze da ordinare, zigomi da baciare.

Mai come allora si era sentita sconfitta, ricordando ogni sillaba detta, ogni sguardo inferto, ogni mossa non compiuta. La parola più cara era divenuta la più terribile.

La terra nella bocca e l’odore del muschio la facevano accorgere di avere almeno ancora dei sensi, era dunque ancora viva? Le ossa doloranti, e l’umido nelle braccia, la luna pigra e incapace di illuminare, il canto sordo di uccelli silenziosi e notturni, la morsa nel ventre, la realtà imbucata in un angolo di boscaglia incolta… Sarebbe uscita da lì ancora? Sarebbe tornata in città? Avrebbe percorso strade, incontrato gente? Avrebbe ancora comprato fumo e pane, risolto incombenze, salutato il postino? Avrebbe accettato la quotidianità, l’ordinaria pantomima del vivere, ora che conosceva la verità? Avrebbe ancora sperato speranze impossibili? Avrebbe ancora desiderato vivere appieno?

La terra non era né salata né dolce, grossolana fra i denti sapeva di legna affumicata. Uno sputo da vecchi per risolvere il fastidio, se fosse bastato per risolvere quel tonfo, quel tarlo, quei grani umidi tra le scarpe.

Troppe volte si era parlato di cammino, di percorso, ma verso dove? E con chi? Con chi si compie la strada?

Mentre tutti procedevano verso la loro meta, lei sapeva che stava semplicemente girando su se stessa, tornando sempre al punto di rottura, illudendosi di andare, per poi vedere che sarebbe riaccaduta sempre la stessa colpa. Quella di non essere voluta, amata al punto da essere semplicemente scelta, preferita. Era ormai questo divenuto la forma del suo vivere, c’era l’estremo bisogno di lasciare che proprio questo divenisse la sola certezza e mentre vedeva da lontano il suo corpo disteso nel bosco, sotto querce impassibili, sapeva che accettare quella verità era l’unica impresa da compiere, rassegnarsi a essere ciò che non voleva essere, ad avere tra le mani, ciò che non voleva possedere, che non c’era altro da fare se non non-fare, non resistere, non lottare, non ribellarsi, non parlare più, non desiderare una casa, un fuoco, un destino buono. Così tutto il fare che si sarebbe fatto nei giorni successivi, sarebbe diventato il regalo illuso ai suoi amici di una vita che pare essere vissuta, di una donna che pare essere tale. Avrebbe ingannato ancora tutti, facendo finta di desiderare e di voler bene, di darsi ancora. Avrebbe certamente fatto entrare altri nel suo corpo, solo per poter sentire l’unica cosa che le era davvero familiare: l’estraneità.

Il cammino degli altri si dipanava sul proprio inciampare. Il suo precipitare era invece, la spinta alla vita per l’altro. Così, caduta come un uccello morente, c’era solo da aspettare il momento.

Ora era tutto chiaro. La morte non era la morte nel suo istante irruento, immediato e senza respiro. La morte era la vita stessa, durava una vita intera, sapeva di terra, di odori ammuffiti, di peso allo stomaco, di sì non detti, di fiori strappati, di silenzi vuoti, di tempi sbagliati, di pagine non scritte, di campanelli suonati a vuoto, d’insistenze, di frettolosa conoscenza, di passi di altri, di lasciare andare chi si avrebbe voluto solo abbracciare. Lasciarlo andare verso la vita, e lasciare sé verso l’accettazione della morte.

Rimase lì, stordita da quella scoperta per ore, senza aspettare l’alba, senza aspettare una salvezza, solo accettando il respiro corto che irrorava ancora quel suo corpo malfatto e goffo. Sopportando la pioggia, tirchia anche quella, perché non lavava il male, non ripuliva lo sporco.

Il non-essere era dunque ciò che la faceva essere: “donaci quel tuo bel niente” si era sentita dire e capiva allora che con quel donare, accolto e deciso, era di certo iniziato, il suo proprio morire.

 

 

”Ophelia”, John William Waterhouse, 1889.

 

 

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