Elogio dell’ozio, quello vero.

Non li sopporto più i drogati di lavoro

Basta, è giunta l’ora di dirlo.

I veloci, gli efficienti, i connessi, i visionari, i “io mangio in due minuti”, i soli perché non hanno tempo per costruire relazioni autentiche, quelli la cui mitologia è quanto hanno prodotto. Quelli che non hanno tempo di leggere un libro, di fare una passeggiata che non sia per acquistare qualcosa, quelli che non si ricordano cosa sia la noia. Non sopporto neanche quelli che le passeggiate le fanno per meditare sul da farsi o che vanno in Tibet per recuperare i loro super poteri manageriali.

Vorrei insomma una Repubblica non fondata sul lavoro ma sulla Bellezza.

Ah quanto manca la noia leopardiana, tanto preziosa per la creatività! Non sopporto chi lavora h24 ma non lavora mai su di sé. Chi ti guarda come se tu stessi perdendo tempo, solo perché hai un’altra concezione dell’esistenza, magari conquistata a fatica, dopo anni dopati dal problema della propria immagine e attitudine, i milanesi o simili efficaci e tutti coloro che li assecondano.

Siamo educati a suon di paura di non farcela, tirati su a competizione e premietti (con cui non educherei neanche i miei cani), affaticati a fare bene il nostro compito per il piacere di qualcuno. Ci hanno fatto credere che Darwin sosteneva che solo il più forte avrebbe vinto, mentre il più bistrattato biologo del mondo aveva detto “chi si sa adattare meglio, sopravvive”… tutto altro paio di maniche cari sgomitoni da podio.

Non è che questo poi oggi coincida anche con un adeguato salario o relativo proprio godimento, perché ormai, quelli che possono permettersi di contrattare o di fare il lavoro per cui son fatti, sono pochissimi. Non parlo necessariamente solo dei Managerssss o dei Ceossss ma di tutti coloro che soffrono di questo iper- attivarsi, iper-misurarsi, iper-muoversi per raggiungere una qualsiasi definizione di sé. Quelli che muovono le ginocchia sotto il tavolo, che hanno l’ansia e l’Aulin sempre in tasca. Il contrario esatto è composto da chi maledice il lavoro, ma quelli mi stanno più simpatici perché all’uomo deluso si può almeno ricordare l’ideale che ha tradito o la strada perduta. All’uomo riuscito, solo il suo super Ego.

Non mi piacciono quelli che alle 7 di mattina hanno già controllato la mail, o hanno acceso il cervello pensando alla to-do-list, ancora prima del caffè, del buongiorno, del guardare l’orizzonte, vedere se ci sono nuvole o sole… Quelli che non hanno tempo per i figli perché hanno tanto da lavorare, ma gli pagano tutto e si preoccupano per il loro bene, infatti comprano poi tutti gli ultimi modelli di jeans e tecnologia disponibile sul mercato, ma non si preoccupano di cosa ci sia scritto sui loro libri di scuola;

Non mi fido di quelli che non hanno tempo per il bisogno di un amico o per un momento di gratuità che chiamerebbero, ozio.

Nel sito dell’Inail troverete un pamphlet sulla “Patologia psichica da stress, mobbing e costrittività organizzativa”, rivolto al mondo del lavoro di ben 81 pagine. Ottantuno!

Ma poiché chi leggerà queste pagine potrebbe, si sentirebbe forse in dovere di additarmi come sfaticata, mi appello alla legge universale che mi anima e mi abita: la mia esperienza. Legge inappellabile ovviamente. Perché mia. Scrivo queste cose perché se il lavoro fosse la definizione del mio essere, qui ed ora, dovrei Suicidarmi, anche se, come direbbe l’amico E. Cioran “tanto lo si farebbe comunque troppo tardi”.

Per pagarmi l’Università ho lavorato in un bar, non servendo cappuccini a i tavoli ma pulendo il bagno, ovviamente. Poi negli ostelli o studentati, facendo la portinaia: ho fatto strage, coi miei occhi azzurri (l’unica cosa che si intravedeva dal vetro) di futuri studenti africani che volevano sposarmi e portarmi con loro una volta finita l’Università…  Ho contato le persone in centro, lungo le vie del commercio durante le festività natalizie, nascondendomi dalla vergogna sotto un passamontagna anni Ottanta, anzi dovrei dire che contavo i passanti, anzi i probabili acquirenti (molto più bello di customers): per indagini di marketing (il lavoro più alienante in assoluto). Ho fatto la guardia a mostre, la baby sitter e tutto quello che in tempi remoti offriva la piazza. Ho un padre che fu agente di commercio. Per questo probabilmente sono imbranata a vendere o a chiedere sconti.

Appena laureata ho iniziato a lavorare come correttore di bozze (il maschile fa più figo) poi come redattrice, in case editrici. Poi ho lavorato in una Fondazione di un pittore americano poi ho avuto una galleria d’arte, tutti questi progetti dediti alla bellezza e non ai servizi- essenziali come pulire un cesso, necessitavano così tanti soldi da tradire il loro stesso mandato. E sono lavori terminati solo per una ragione: mancanza di soldi. Ho quasi fatto la volontaria a vita. Non pagavano molto, non pagavano abbastanza, non pagavano. Però erano sicuramente appaganti e rispettosi del mio percorso di studi.

Mi sono chiesta: Perché la bellezza, in Italia, ha un prezzo così alto? Perché la cultura, in Italia, non paga?

Sono diventata povera non avendo il fisico per lavori utili e non avendo una ricca famiglia o inventiva geniale su cui contare. Soprattutto sono diventata povera perché mi sono impoverita. Umanamente impoverita. Ho pensato che il mio insuccesso professionale potesse essere l’indice di ciò che realmente ero: se non ce la fai nel lavoro pur essendo persona mediamente intelligente, colta è perché sei un po’ storta, un po’ sbagliata te.

Non si devono mai incolpare le circostanze! Questo l’ho imparato da tempo. Eppure se la cultura intellettualmente paga, quando lavori nella cultura proprio non si è pagati. Pare tu ti stia occupando di tempo libero e sport: oh ma gli istruttori di tennis son pagati! Anche quelli di wind surf!, anche le lezioni di musica o di cucina!

Cos’è allora che non circola oltre al denaro? Non gira il significato.

L’altro mio caro amico, Ananda Coomaraswamy (nato nello Sri Lanka, studioso di arte occidentale, quattro matrimoni e giuro, la faccia identica a Battiato), il primo prof. di estetica orientale, occidentalmente riconosciuto… Egli sosteneva che nel Medioevo (il secolo buio e oscuro dove tutto più o meno faceva schifo a parte il patrimonio artistico e culturale che ci rende quello che siamo oggi), la bellezza facesse parte del lavoro stesso: prova ne erano le congregazioni di arti che nascevano per approfondire la propria vocazione professionale e il fatto stesso che un lavoro utile era anche bello. Se penso alla fontana (Maggiore) della mia città, Perugia, “mira videre potes” , mi viene in mente un gioiello che sfida lo spazio e il tempo meglio di un buco nero e se penso che fu costruita come punto terminale dell’acquedotto e che serviva solo per abbeverare i cavalli e le persone… Insomma l’estetica, il senso cioè della bellezza, era dentro il lavoro, non nel dopo lavoro dei tramvieri. Solo dopo, la bellezza, soprattutto con la modernità, diventa sinonimo di tempo libero. Per cui il lavoro è il brutto e la bellezza arriva dopo. Alle 18, quando vai a farti lo Spritz. E spendi 10 euro a botta.

Quindi quello che manca è la coscienza del nostro fare perché ci è caduta dal finestrino del treno superveloce la coscienza del nostro essere. Problema antico quanto il mal di schiena. Il significato per cui ci sbattiamo ogni giorno può essere il lavoro per il lavoro?

Il senso che a nutrirci nella vita non sono solo le fette di Nutella, (che poi è da vedere che in verità non ti avvelenino), a nutrire la vita è il fatto che tu possa essere quello che sei e quindi, fare quello che sai fare meglio. Perché tutto ciò è diventato astratto nella concezione e un privilegio nella fattività?

Perché (lo dico gridando) desiderare di essere ciò per cui si è fatti, non è neanche argomento di conversazione al bar nella maggior parte della popolazione? Ci hanno forse riempito la testa con delle polpette al curry, sostituendole con desideri minori?

È ormai arcinota la legge del marketing che crea il tuo desidero e ti induce a comprare quello che c’è in quel preciso scaffale, per non parlare del relativismo che poi ci ha condotti tutti obbedienti nella società liquida… aggiungiamo un residuo importante di nichilismo, un pizzico di cinismo, paura q.b. otteniamo la fine delle fedi, la fine delle certezze evolutive (pure il nostro cervello si è ridotto, ormai è noto), la fine di tutto. Ma io le bollette le devo pagare. Anzi io, con la mia bolletta di 18 euro devo darne altre 100 di accise e accidentinonsocosa a qualcuno che non so neanche chi sia. E se ho guadagnato 4,10 euro l’ora, con una Laurea, nel 2021, in un paese strategico e culturalmente avanzato, nell’Europa che tutti vogliamo, di che mi lamento?

Non siamo più nel Medio Evo (bla e bla e bla bla) e neanche nei campi di lavoro nazisti e comunisti, siamo in una società libera, evoluta, sessualmente in corsa per la parità (e non viceversa) e democratica (bla e bla e bla bla). Credo che il disastro pandemico sia la più grande occasione di retrocedere, tornare piccoli e ricordarsi di ciò che si desidera davvero, perché a me pare che tutto questo lavorare, tutto questo procedere, tutto questo innalzarci verso il trionfo,  non sia che una scoreggia nell’Universo, oh – chiedo scusa – una puzzetta nell’Universo! Lo diceva pure la tradizione monastica che si lavora per vivere, non si vive per lavorare (per precisione i Trappisti dicevano “non viviamo per fare la birra, facciamo la birra per vivere”) e quelli, pare non fossero né comunisti né fascisti, ma singoli uomini dimenticati che il lavoro lo avevano messo come regola, innamorati però dell’istante e dell’eterno.

Insomma seguite l’esempio che vi pare, scegliate l’ideale di lavoratore che vi pare ma almeno, per carità, non illudetevi che non stiate in questo preciso momento, imitando qualcuno, facendo comodo a qualcun altro e soprattutto non illudetevi che ci sia ancora tempo. Il tempo è solo qui ed ora, tutto il resto son chiacchiere.

Ho citato:

E.M. Cioran, La tentazione di esistere, trad. di Lauro Colasanti e Carlo Laurenti, Adelphi, Milano, 1984

Ananda Coomaraswamy, Bellezza e verità: saggi sull’arte cristiana e orientale, trad. di Anna Pensante, Milano, Luni, 2017

Iscrizione latina, Fontana Maggiore, Perugia

https://www.inail.it/cs/internet/docs/alg-patologia-psichica-da-stress.pdf

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